Introduzione

Questa storia, la mia storia inizia così.
Ho incontrato l’imperatore tanti anni fa in una giornata piovosa di fine Novecento, ero salito sulla collina, la sua collina per vedere finalmente da vicino e toccare, per camminare nel suo ottagono di pietra, quel castello di Santa Maria del Monte, chiamato solo dopo il 1463 Castel del Monte, il castello più bello immerso nelle campagne pugliesi del territorio di Andria.
In quell’arte di fare castelli, i maestri della pietra, tra vuoti e geometrie, fecero in quel lontano Medioevo un luogo di pietra, un castello che appariva meno bianco di come appare oggi, attraversato da venature rosa pallido e venuzze rosso tenue, con quella breccia corallina e sanguigna, marmo antico ancor oggi presente nel portale d’ingresso, in alcune colonne, nelle rifiniture di aperture, finestre e porte.
Un luogo di pietra, per racchiudere sfarzo e decorazioni, marmi e mosaici pregiati, questa volta non c’era penitenza ma solo bellezza, colore e vanità , in quella lunga sete di conoscenza tra le simmetrie, calcolo, angoli, numeri e proporzioni per poter stupire e strappare al tempo l’immortalità del loro re ed imperatore e custodirla per sempre nella pietra del castello.
Un castello tra il rigore delle geometrie ed il contrasto dell’immaginario, sì perché in quella giornata di fine novecento le sue pietre descrivevano la furia del tempo che tutto strappa e cancella ma anche la magia nel riuscire a custodire e preservare per quasi otto secoli l’immagine, la sua immagine più del porfido severo sarcofago imperiale nella cattedrale di Palermo, il re Federico ed imperatore sempre Augusto. Federico II colui che fu legge vivente, colui al quale obbedì il mondo intero.
Ho incontrato l’imperatore tanti anni fa in una giornata piovosa di fine Novecento, sì lo “stupor mundi et immutator mirabilis”, lo stupore del mondo e il miracoloso trasformatore come ebbe a scrivere Matteo da Parigi. Ero finalmente all’interno del suo castello, al centro del cortile interno, lui al-inbiratur, circondato più che dai germanici, cavalieri ed armigeri, dalle sue ombre, quei saraceni di Lucera la città più maledetta in terra cristiana.
Era un nuovo sultano con il suo broccato raffinato di seta ed oro, dai bordi di passamaneria con motivi geometrici tra i tanti ricami di perle d’acqua con il mantello ricamato fino ai piedi, le abili mani custodi del sapere antico di stoffe e ricami, quei maestri arabi e siciliani, che avevano tramandavano oralmente tutto il sapere del Tiraz, la leggendaria e prestigiosa officina di tessuti le cui stoffe viaggiavano fino ad Alessandria d’Egitto, avevano racchiuso ed imprigionato tra aghi e fili dorati, tra pietre preziose ed argenti, la luce che deve scendere dall’alto verso ogni suddito.
Nel silenzio del cortile tutto poteva e non poteva essere domandato ed ascoltato come la sua adolescenza difficile o del sogno dell’impero tra scomuniche ed anatemi nell’eterna lotta contro la madre chiesa, e quegli arabi, ebrei e greci circa la bellezza delle creature di Dio, delle miniature dei suoi scritti più celebri “ars venandi cum avibus”, della bella Palermo e dei bianchi cistercensi, austeri e saggi di ogni sapere, sarebbe stato bello avere della città delle città la Gerusalemme, un ricordo, dell’ingresso trionfante nella sua Gerusalemme, dove le cupole di oro ed i mosaici riflettono la grande santità di Dio.
Ma ci fu solo uno sguardo, uno sguardo severo che richiamava più che all’obbedienza e timore, alla fedeltà, quella che non conosce tempo e secoli.
Uno sguardo verso una quercia indomita quel Bernardo padre ed amico sincero, Bernardo di Castacca arcivescovo della madre chiesa ma sordo ad ogni scomunica papale, colui che fin da Palermo per tutta la sua vita fino alla fine, quando prima di partire per il suo ultimo viaggio lo unse con l’olio benedetto, per essere degno della verità, nel viaggio dei viaggi.
Cos’è la vita, se non una strada tortuosa come una mulattiera, una strada alla ricerca della prova di quella verità, che noi chiamiamo Dio, ma per altri quella prova si chiama sogno, conoscenza, fama e potere, ed in ogni momento Bernardo fu sempre al suo fianco ed in ogni circostanza mentre la strada era in salita e sempre più difficile da percorrere.
E poi di nuovo silenzio stimolando interesse e curiosità, un re da condannare per i suoi nemici additato come l’Anticristo o venerato come un nuovo Messia dai suoi sempre fedeli e seguaci, lo stesso immaginario di allora preservato dal tempo.
Il suo immaginario prepotente, il suo immaginario custodito in cima sulla collina, in un Medioevo di sfarzo e colore, bellezza e potere, la sua corte, il suo serraglio tra racconti e leggende, Federico II re di Sicilia, il nipote del Barbarossa, ora custodito tra vuoti e buio, misure ed angoli, nella pietra del suo castello più bello.
Sì perché nel suo silenzio, il castello è potenza tra reale ed irreale, un caleidoscopio di colori, luce, sogno e vanità, emblema e meraviglia, rappresentazione, immagine e potere, per stupire ancora il mondo.
Un castello ottagonale, con quel numero pietrificato per diventare eterno, un castello come un piccolo frammento della magnificenza di allora dove la breccia rossa ed i marmi bianchissimi di un tempo con i pavimenti ricoperti di schegge di luce con quelle pietre intarsiate in meravigliosi mosaici, tra colonne lisce nella mano più raffinata ed elegante, tra colore tanto colore e sfarzo, circondato da otto torri ottagonali, con otto sale al piano inferiore ed otto al piano superiore con un cortile interno ottagonale.
La pietra ed il numero, un numero segno di immortalità, di resurrezione, un numero che in quel labirinto dell’otto dove si è facile preda dell’immaginario con particolari e forme con la sua inspiegabile e ossessionante ripetizione nelle composizioni architettoniche. Perché la geometria è una scienza sacra ed il numero è le fondamenta di tutte le cose.
Ma “la storia di questo sito web viene a dire che la storia che in esso si doveva raccontare non viene raccontata”.
Perché se è vero che sedici stanze dalla forma trapezoidale, otto per ciascun piano, ora sono solo un frammento di quello che fu colore, sfarzo ed arte, con quella pietra tra terra e cielo, le sue geometrie diventano un labirinto tra reale ed irreale, tra sensi e percezioni da dove non è più facile uscirne:
« L’uomo è la misura di tutte le cose di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono »
Ma questa è la mia storia, quella di una giornata piovosa di fine novecento, dove tutto poteva e non poteva essere domandato ed ascoltato.

Giuseppe Conte